Rassegna Stampa

22 marzo 2020

Finisce il ricatto del lavoro

Fonte: La Repubblica

Finalmente è giunta una parola definitiva, prima dai sindacati, poi dalle Regioni, infine dal governo. Smettiamo di far finta di credere che i veicoli di un’epidemia di dimensioni catastrofiche fossero i podisti, i ciclisti e i passeggiatori da giardini pubblici

Di Gad Lerner

Chiusura di tutte le attività produttive non essenziali. Questo e il provvedimento che solo ieri a tarda notte il premier COnte ha osato assumere dopo due settimane di tormento, perchè è chiaro a tutti che si tratta di un enorme sacrificio. Domani sarà di nuovo lunedì-

E se nessuno li avesse fermati d’imperio  centinaia di migliaia di lavoratori dipendenti dell’industria e dell’artigianato lombardi sarebbero stati costretti a rimettersi m marcia verso le loro unità produttive, rimaste finora in attività nel mezzo di un’epidemia seminatrice di morte.

Finalmente è giunta una parola definitiva, prima dai sindacati, poi dalle Regioni, infine dal governo.

Smettiamo di far finta di credere che i veicoli di un’epidemia di dimensioni catastrofiche fossero i podisti, i ciclisti e i passeggiatori da giardini pubblici. A uscire di casa, nelle settimane scorse, è stato il grande esercito della manodopera lombarda che ha dovuto assoggettarsi al ricatto del lavoro.

Solo una minoranza ha potuto permettersi la scappatoia individuale, mettendosi in malattia. Gli altri hanno condiviso l’angoscia del titolare: se non rispettiamo le scadenze di spedizione si chiude. Per non parlare di chi ha dovuto fare i conti con la spada di Damocle del contratto a termine.

Per questi lavoratori l’hashtag virtuoso iorestoacasa rilanciato negli show del sabato sera, rischiava di suonare come una beffa. Io resto a casa? Magari! Nelle file davanti ai supermercati alla mattina presto di ieri, erano molte le persone costrette a fare la spesa di sabato perché lunedì tocca risalire in macchina, si torna a lavorare.

Questo formicaio di proverbiale operosità ha ottenuto, in extremis, l’assicurazione che si attendeva: lunedì non dovrà rimettersi in marcia. Se ancora nel pomeriggio l’ordinanza della Regione Lombardia, poi seguita dal Piemonte, lasciava margini di discrezionalità alle associazioni imprenditoriali, il capo del governo ha potuto trasformare la dissuasione in divieto. Già la massiccia introduzione di ammortizzatori sociali offrivano ai datori di lavoro un incentivo allo stop.

A fermare la produzione, però, finora era stato soprattutto l’esaurimento delle scorte, oltre che l’espandersi dei contagi. Quasi che non si potesse mettere in dubbio l’imperativo categorico delle superiori necessità dell’economia. Meglio tardi che mai, tutto questo è superato.

Come è noto, il Dpcm governativo del 13 marzo scorso aveva consentito che rimanessero aperte le aziende in grado di rispettare le norme del distanziamento sociale. Meno noto è che anche il presidente lumbard Fontana, quello stesso giorno, si era allineato alla richiesta degli imprenditori: «Per quanto riguarda le attività produttive è già stato raggiunto un accordo con Confindustria Lombardia che provvederà a regolamentare l’eventuale sospensione o riduzione delle attività lavorative per le imprese». Dobbiamo constatare che affidarsi solo “all’autoregolamentazione” si è rivelato stato un errore.

La segretaria regionale della Cgil, Elena Lattuada, ne è convinta: «Se nel bergamasco la situazione è precipitata, dipende anche dal fatto che ha vinto l’idea che bisognava continuare a produrre. Lo stesso a Brescia, in Brianza, a Lecco». Nel suo diario di sindacalista alle prese con le fragilità da coronavirus, Daniele Vedovati della Femca Cisl di Bergamo scrive che da quel 13 marzo «i lavoratori sono spaventati, arrabbiati, delusi». Fu allora, tanto per dire, che l’amministratore delegato delle Cartiere Pigna di Alzano Lombardo, epicentro della zona rossa, dispose rimanessero a casa gli impiegati del commerciale e dell’amministrazione; ma che continuassero a lavorare gli operai della produzione e della logistica. Lo stesso è accaduto in un’azienda chimica di Varese: impiegati a casa, operai in fabbrica.

Poi, certo, quando l’epidemia è diventata strage, il 65% delle aziende bergamasche si son fermate. Ma il restante 35%? Ieri il presidente di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti, calcolava che le attività produttive operanti sarebbero solo il 30%. Ma i sindacati sostengono che continuano ad essere molte di più. È evidente che occorreva un’assunzione di responsabilità politica. Assumerla ha voluto dire resistere a pressioni e scommettere sulle capacità future di ripresa del paese. Ripeto: meglio tardi che mai. Limitare gli spostamenti al personale effettivamente impegnato nella fornitura di prestazioni sanitarie e di servizi essenziali era un provvedimento ineludibile. Non ci si poteva più limitare a una semplice raccomandazione. Già ieri nelle file davanti ai supermercati si sentiva mormorare: «Tanto lorsignori se la cavano, sono già tutti a Montecarlo, a Sankt Moritz, nelle seconde case». Altri replicano: «Ma dai, si sono infettati pure il principe di Monaco e il figlio di Tronchetti Provera»… Serpeggia un senso di ingiustizia sociale che rischia di infrangere la solidarietà collettiva. Sentir ripetere ancora l’argomento usato nelle settimane scorse – non possiamo permetterci di perdere commesse a vantaggio della concorrenza estera – a questo punto sarebbe diventato offensivo: un calcio in faccia alla sofferenza. Domani l’Italia si ferma per davvero.

22 marzo 2020

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