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14 gennaio 2025

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I contratti collettivi e il tempo indefinito per i rinnovi. Le logiche di Zangrillo e le ragioni di Grasselli (Fvm)

Categoria: CCNL

I contratti collettivi e il tempo indefinito per i rinnovi. Le logiche di Zangrillo e le ragioni di Grasselli (Fvm)

La lettera aperta al ministro della Pa Zangrillo del Presidente della FVM Aldo Grasselli, pubblicata il 9 gennaio scorso sul sito , è quanto di più ineccepibile e puntuale, ma nel contempo pacato e ironico, che si potesse scrivere. La situazione è davvero surreale: frasi come “con i tempi giusti”, “grande risultato”, “dare continuità al pubblico impiego” e vantarsi addirittura di contratti firmati con anni di ritardo non sono un segnale incoraggiante. C’è quasi da rimpiangere quello che accadde nel 2010, quando il Governo Berlusconi bloccò improvvisamente per tre anni la contrattazione collettiva nel pubblico impiego per fare cassa. Almeno il decreto Tremonti manifestò esplicitamente le intenzioni (art. 9, comma 17, del DL 78/2010) e basterebbe quella frase “senza possibilità di recupero” a testimoniare l’invasività di una politica che proprio in quel momento iniziò ad utilizzare il pubblico impiego come un bancomat.
Oggi si è persa anche la franchezza di ammettere la stessa identica conseguenza per più di tre milioni di lavoratori: il salto a piè pari di una tornata contrattuale che quindici anni fa venne attuato formalmente per legge mentre oggi si realizza subliminalmente attraverso fatti concludenti o sarebbe meglio dire “non” fatti. Il blocco della contrattazione venne raddoppiato per altri tre anni e solo una sentenza della Corte costituzionale (n. 178/2025) riuscì a far riattivare il regolare ciclo negoziale, peraltro non senza fatica perché tra la data di pubblicazione della sentenza (29.7.2015) e la stipula del successivo contratto collettivo della dirigenza sanitaria (19.12.2019) passarono quattro anni e mezzo.
Forse può essere utile un veloce recap sulla contrattazione collettiva, perché da molte dichiarazioni sembrerebbe che alcuni elementi fondanti siano sconosciuti o ignorati. La contrattazione collettiva, sia nel settore del lavoro privato che nel pubblico impiego, è regolamentata dall’Accordo quadro degli assetti contrattuali del 22 gennaio 2009 che sostituì il precedente Protocollo del 23 luglio 1993. Voluto dal Governo Berlusconi IV e firmato da tre Ministri, cinque Confederazioni sindacali (la Cgil non firmò) e 19 associazioni datoriali, il testo è costituito da 19 punti estremamente dettagliati dei quali si sintetizzano i più rilevanti: 3 anni sia per la parte normativa che per la parte economica; introduzione di un indicatore della crescita dei prezzi al consumo assumendo per il triennio – in sostituzione del tasso di inflazione programmata – un nuovo indice previsionale costruito sulla base dell’Ipca (l’indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo per l’Italia); nel triennio successivo recupero del delta tra Ipca e inflazione reale; rinnovo tacito se non disdetto. Successivamente, Il 30 novembre 2016 la Ministra per la PA Madia e le tre Confederazioni firmarono un Protocollo che diede di fatto il via alla stagione dei rinnovi contrattuali dopo ben sette anni. In quel documento non vengono affatto modificati gli “assetti contrattuali” del precedente del 2009 ma si definiscono alcuni aspetti che apparivano necessari per attenuare la eccessiva rigorosità del d.lgs. 150/2009, il cosiddetto “decreto Brunetta”.
Nel primo Ccnl dei medici e veterinari (la ex Area IV), risalente al lontano 1996, si legge nell’art. 3, comma 3, lettera a), del CCNL del 5.12.1996: “In coerenza con il carattere privatistico della contrattazione, essa si svolge in conformità alle convenienze e ai distinti ruoli delle parti e non implica l’obbligo di addivenire ad un accordo salvo quanto previsto dall’art. 49 del d.lgs. 29/1993”. Il principio informatore che ne discende è che contrattare è un obbligo, concludere no. Nessuno quindi può determinare o contingentare i tempi della stipula mentre quello che è inaccettabile è che la trattativa non inizi nei tempi prescritti che, fino a prova contraria, sono esattamente in sequenza cronologica con la scadenza del contratto precedente senza alcuna interruzione. Dove è scritto e a quale logica risponde il fatto che dopo la stipula di un contratto devono passare tempi infiniti per il successivo rinnovo, anche se si riferisce ad un triennio ormai scaduto? L’unica logica è quella di cassa, del prendere tempo, dell’eterno rinvio di atti dovuti. Si potrebbe rispondere che non ci sono i soldi e che la legge di bilancio deve preventivamente stabilire gli importi degli aumenti contrattuali. Ma, in realtà, entrambe le affermazioni costituiscono un alibi che depista dalla realtà e non tiene conto che quelle stesse risposte si fondano su due equivoci.
Riguardo alla presunta liquidità mancante, va ricordato che le risorse finanziarie per gli aumenti contrattuali – contrariamente alle amministrazioni centrali per le quali vengono stanziate direttamente da Bilancio dello Stato – devono essere accantonate nei bilanci delle aziende sanitarie in ottemperanza all’art. 48, comma 2, del d.lgs. 165/2001 e ai principi contabili vigenti; quindi i soldi “devono” esserci. Se gli accantonamenti non vengono fatti correttamente, allora si tratta di una criticità del tutto diversa. Ma, a quest’ultimo proposito, nel Referto della Corte dei conti sul testo contrattuale dell’Area Sanità (deliberazione delle sezioni riunite n. 34 del 2.5.2024, paragrafi 19-21) viene detto esplicitamente che “Le amministrazioni sono poi sottoposte al vincolo dell’accantonamento degli oneri contrattuali.
A tale proposito, nel primo Atto di indirizzo, il Comitato di Settore ha ribadito l’obbligo per gli enti del Ssn di provvedere a effettuare l’accantonamento degli oneri contrattuali nei rispettivi bilanci di previsione. Tale obbligo era stato introdotto dall’art. 9, comma 1 del DL n. 203 del 2005, convertito nella legge n. 248 del 2005. L’obbligo è stato riconfermato anche dall’art. 2, comma 17, della legge n. 191 del 2009. Il rappresentante del Mef ha dichiarato che il Tavolo predetto ha verificato positivamente gli esiti del controllo degli accantonamenti per i rinnovi contrattuali per il triennio 2019-2021. È stato, inoltre, dichiarato che le verifiche condotte dal Tavolo negli ultimi dieci anni hanno sempre confermato l’ordinato accantonamento da parte dei singoli enti degli oneri contrattuali.
Per ciò che concerne il secondo alibi, per la quantificazione delle risorse è sufficiente rispettare i criteri dell’Accordo quadro del 2009 e fare riferimento all’Ipca che viene definito dall’Istat in tempo reale. Anzi, corre l’obbligo di segnalare che questo indice inflattivo è calcolato al netto dei beni energetici e, per i pubblici dipendenti, non è prevista la specifica tutela relativa al recupero dell’inflazione nello stesso triennio di cui al punto 2, sesto alinea, dell’Accordo.
Quindi sono esigibili tutti gli elementi necessari per aprire le trattative senza alcuna soluzione di continuità tra i trienni contrattuali. Per fare un esempio: dopo la stipula del Ccnl del 19 dicembre 2019 – che riguardava il triennio 2016/2018 – cosa impediva di iniziare le trattative il 2 gennaio 2020 (e non il 2 febbraio 2023, come è invece avvenuto), visto che il triennio in questione era già a un terzo della sua durata, che l’Ipca era calcolabile, che le risorse dovevano essere state accantonate e che la disdetta del Ccnl e la presentazione delle piattaforme sindacali erano due passaggi disciplinati nel dettaglio dal contratto dall’art. 2, commi 4 e 5, dell’allora vigente Ccnl del 19.12.2019? Nel citato comma 5 si precisava un aspetto che appare oggi distopico: non ci si deve stupire più di tanto di questo disallineamento temporale ma quanto si legge nei commi 4 e 5 di questa clausola suonava veramente bizzarro: infatti, in applicazione di tali clausole la disdetta avrebbe dovuto già essere attiva e le piattaforme dovrebbero essere già state presentate alla data della stipula: cioè, si sarebbe dovuto disdettare un contratto prima ancora di averlo firmato.
Il sistema si è così deteriorato nel tempo che la formula utilizzata per vent’anni è stata integrata nell’ultimo contratto collettivo con le parole “o, se firmato successivamente a tale data, entro tre mesi dalla sua sottoscrizione definitiva”, evidente segnale di una malcelata excusatio non petita. Se il contratto 2019/2021 si fosse chiuso a febbraio 2022 invece che a settembre 2023, l’incremento del 3,78% – coerente con l’Ipca riferito al triennio – avrebbe avuto un impatto completamente diverso rispetto a mettere in busta paga gli aumenti in un momento storico in cui l’inflazione era a due cifre. Oltretutto, nel triennio successivo si sarebbe dovuto recuperare il delta tra l’Ipca 2019/2021 e l’inflazione realmente intervenuta, come dice chiaramente l’Accordo del 2009. Ipotesi fantasiosa? Credo proprio di no, se si fosse applicato correttamente l’Accordo del 2009; nondimeno, se queste regole sono considerate obsolete e non più sostenibili, allora l’accordo va disdettato per il pubblico impiego e aggiornato. Non va infine ignorato che la stessa legge ipotizza che un contratto collettivo possa essere firmato in poche settimane: l’art. 47-bis del d.lgs. 165/2001 al comma 2, disciplinando l’erogazione dell’anticipazione afferma che “in ogni caso a decorrere dal mese di aprile dell’anno successivo alla scadenza del contratto collettivo nazionale di lavoro, qualora lo stesso non sia ancora stato rinnovato …..” e queste ultime parole sono esemplari di una eventualità assolutamente possibile.
In conclusione, aderendo all’idea di Aldo Grasselli di donare un calendario al Ministro Zangrillo, si potrebbe unire al regalo anche un testo dell’Accordo del 2009, elegantemente rilegato.

Stefano Simonetti
Sanità24 – Il Sole 24 Ore 14 gennaio 2025