Arrivati a settembre, prima di ripartire con il consueto slancio di fine estate, conviene guardare ai mesi precedenti per vedere “dove eravamo rimasti”.
Il Servizio sanitario nazionale era oggetto di forte preoccupazione di Presidenti e Assessori regionali alla sanità e del Ministro della salute.
Si ipotizzava un incremento del fondo sanitario nazionale, si vagheggiava di miliardi, forse 4, magari di più, ma naturalmente sempre senza utilizzare il MES sanitario per non inquinare il sano fluido vitale della nostra Nazione con moneta impura dell’Unione europea.
Poi il 7 agosto il Governo – mossa tipicamente prebalneare – ha emanato il decreto più Omnibus della storia: misure contro i piromani, sulle licenze dei taxi, sulla disciplina delle intercettazioni e dei trojan, fino alla tassa (soviet) sulle banche.
Decreto traballante, in attesa di una ripulita prima di cadere sotto la scure della Corte Costituzionale, pur tuttavia un decreto che tra le tante regalie non ha previsto un centesimo per la sanità pubblica.
Poi, superati Ferragosto e qualche svarione di politica estera, si è tornati alla cruda realtà della legge di bilancio che dovrà far quadrare i conti tra entrate (sempre più modeste grazie alla confermata non belligeranza del Governo contro l’evasione fiscale) e uscite per due delle voci più importanti dello Stato: pensioni Inps e stipendi della pubblica amministrazione.
Sorpresa! Non ci sono soldi per cambiare (in meglio per i lavoratori) la legge Fornero, non ci sono soldi per i rinnovi contrattuali dei pubblici dipendenti, e tra questi per gli stipendi del personale (sempre eroico e osannato) del servizio sanitario nazionale.
In questo scenario poco entusiasmante, l’unica cosa che stava maturando i suoi pochi ma tangibili frutti era il Contratto collettivo (2019/2021) della dirigenza medica, veterinaria e sanitaria, uno degli ultimi contratti ancora da firmare di tutta la pubblica amministrazione. La maratona iniziata a febbraio avrebbe dovuto portare alla firma della pre-intesa prima della pausa estiva, in modo che il contratto potesse produrre effetti immediati su molti aspetti che richiedono una urgente ridefinizione a cominciare dalle prestazioni aggiuntive e dell’extra orario e permettere il pagamento degli arretrati entro fine anno. Secondo le previsioni gli arretrati ammontano in totale a circa 10mila euro, mentre gli aumenti arrivano a regime dopo le contrattazioni aziendali a 6500 euro lordi annui tenendo conto che una parte sono già entrati in busta paga con le indennità di vacanza contrattuale.
L’Aran ha convocato i sindacati martedì 5 settembre, dopo la sospensione delle trattative di inizio agosto orientata alla soluzione delle questioni cruciali.
I temi sul tavolo per il rinnovo del contratto della dirigenza medica, veterinaria e sanitaria 2019-21 restano gli stessi lasciati in sospeso prima della pausa estiva. Restano da sciogliere i nodi sulle eccedenze orarie per le quali si era trovata una soluzione che soddisfaceva almeno la maggioranza delle sigle sindacali e la pretesa non quantificata delle risorse aggiuntive necessarie per soddisfare un maggiore arco sindacale da reperire col Governo.
Che succederà il 5 settembre in Aran? Sarà messo a frutto il confronto contrattuale già fatto aggiungendo qualche miglioria nell’alveo delle disponibilità oppure, irrigidite le posizioni, sarà inevitabile passare alla ricusazione totale di questo contratto non chiuso – ancorchè tangibile – in attesa di “migliori sorti e progressive” e naturalmente mettendo in stand by anche il prossimo contratto 2022/2024 non ancora finanziato?
La domanda è d’obbligo perché delle due l’una: o si portano a casa i benefici disponibili sul tavolo dell’Aran che comprendono tra l’altro il premio economico per chi opera nei pronto soccorso e in emergenza urgenza e gli incrementi significativi per i medici con meno di 5 anni di servizio, o si punta a una contrattazione straordinaria, di tipo politico e non quindi con Aran, per avere quelle risorse che occorrono a soddisfare ogni richiesta legittima ma per le quali il Governo per ora è – e sembra intenzionato a rimanere – insolvente.
Se non ci si potrà ritenere soddisfatti delle aperture e delle risorse di cui dispone Aran, allora i sindacati (tutti?) dovranno ribaltare il tavolo e dare il via ad azioni durissime e durature contro Governo e Regioni che invertano una buona volta le politiche di finanziamento della sanità pubblica (una vertenza carsica e un po’ sopita) e che parifichino o almeno avvicinino gli stipendi di medici e sanitari a quelli degli altri paesi dell’UE, cosa di non facile realizzazione a meno di una mobilitazione professionale e sociale capace di mettere in discussione i parametri di contrattazione del pubblico impiego e a sciogliere i cordoni della borsa del MEF che ha già molti debiti da onorare.
In questo quadro rivoluzionario sarà necessario intercettare il “paese civile” anche superando qualche contraddizione interna, come ad esempio l’uso dell’intramoenia quale ammortizzatore delle carenze dei LEA che espone i cittadini bisognosi di cure al vergognoso bivio: liste d’attesa infinite nel SSN o prestazione immediata ma dopo pagamento (out of pocket come si usa dire oggi) del medesimo personale – di quel SSN inadempiente – se la prestazione viene erogata in libera professione intramuraria.
È oggettivamente sensato chiedere pane, burro e marmellata quando si sta razionando il pane e tutto il personale sanitario è esposto alle contraddizioni di alcuni settori particolari che hanno un potere negoziale proprio legato al razionamento delle loro disponibilità?
C’è tra le dirigenze sindacali la consapevolezza che una volta ricusato questo contratto, su cui si è lavorato sei mesi in sede Aran, la prossima mossa consequenziale dovrà indirizzare le richieste, la protesta e la rivolta tambureggiante del personale contro i datori di lavoro (Governo e Regioni)?
Quando il gioco si fa duro non si discute più con gli intermediari ma ci si deve confrontare col “padrone”, magari con una mobilitazione forte, unitaria e generale sino a spremere significativi risultati, o si subisce la delegittimazione del sistema di rappresentanza, di cui alcuni tra i professionisti – ma solo alcuni e spesso i più tenaci nel chiedere – possono fare a meno essendo merce rara e cara.
I sanitari dipendenti e convenzionati sono in buona parte i custodi del SSN e della sanità pubblica universalistica, inclusiva e capace di proteggere soprattutto le crescenti fasce di cittadini deboli del Paese, come tali sono dei rompiscatole per chi invece nella sanità vede un gran bel business. E l’individualismo che ormai sta caratterizzando la nostra società non risparmia la sanità pubblica che con le sue inefficienze incentiva l’offerta individuale e privata nelle sue tante forme.
Il momento è particolarmente delicato, stanno venendo al pettine tutti gli effetti degli errori di programmazione e del mancato finanziamento del passato, l’escalation una volta innescata ha pochi margini di mediazione, e si sa che è più facile appiccare incendi che spegnerli.
E anche all’interno dello stesso mondo professionale creare delle fratture indebolisce i professionisti più deboli, quelli che in gran parte reggono sommessamente il sistema per permettere il successo di tutti gli altri.
Il rientro dalle ferie non sarà una passeggiata di salute.
Aldo Grasselli
Presidente